Tema della Settimana sociale di Taranto, 21-24 ottobre 2021, è “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro”. Ma si potrebbe dire che il tema dominante della Settimana, come è da sempre per tutte le Settimane sociali che si succedono dal lontano 1907, è quello dell’unità. Innanzitutto dell’unità dei cattolici tra loro, ma anche dell’unità di questi con il mondo.
Sempre, in tutte le settimane sociali tenute nel corso di una lunga storia, oltre al contributo per il rinnovamento nella Chiesa, si è registrata questa tensione all’unità. L’edizione del 2021 di Taranto offre però anche un elemento di novità, quello dell’unità dell’uomo con il creato. Creando l’uomo, Dio lo ha strettamente legato all’intera creazione. Tanto stretto è questo legame da definire l’uomo stesso come custode del creato. Compito del custode è evidentemente quello di vigilare sull’integrità di ciò che deve custodire.
C’è un secondo elemento di novità che rafforza il carattere unitario dell’attuale settimana sociale e che deriva dal metodo della sinodalità che si è fatto strada negli ultimi tempi nella vita della Chiesa; con il pontificato attuale, ancora più decisamente.
L’unità è tra i più importanti contributi che i cattolici possono dare alla vita della società. L’uomo non è capace di creare unità con le proprie forze. Lo vediamo tutti i giorni. Perfino in famiglia si fa fatica a rimanere uniti. Quando poi si entra nella sfera pubblica, non c’è bisogno che si sottolinei quanta discordia vi regni. Vediamo anche quanto difficile sia puntellare e tenere in piedi un edificio sociale che sembra crollare. Spesso, tra l’altro, si tratta di tenere unito un corpo sociale nel quale convivono interessi diversi e talvolta divergenti, come può capitare quando per esempio si devono conciliare la salvaguardia delle attività produttive, quindi del lavoro, e la salvaguardia dell’ambiente.
C’è poco da fare, è necessaria un’unità che nasca come qualcosa di completamente nuovo. Generare un soggetto nuovo dentro la storia è tra i compiti propri della Chiesa. Sembra di capire però, leggendo l’Instrumentum Laboris della Settimana sociale, che la prima cosa che serve non è tanto l’impegno personale, sempre inadeguato, che ciascuno può mettere per raggiungere questa unità.
La cosa più necessaria all’uomo contemporaneo è la consapevolezza di un destino comune. La vicenda del coronavirus ci ha fatto scoprire drammaticamente quanto le vite degli uomini siano connesse. Quanto i comportamenti individuali possano avere pesanti conseguenze sulla vita della società intera. Ma anche quanto bene può ricavare una comunità dal gesto di solidarietà di un singolo uomo.
Che cosa hanno da dire i cristiani in un contesto del genere? La sproporzione rispetto alle sorti dell’intero pianeta è così grande che l’unica cosa ragionevole sembra essere il dover prendere atto della propria inconsistenza umana. Perché, non c’è bisogno di dirlo, i cristiani hanno i limiti che hanno tutti, sono poveri come poveri sono tutti gli uomini.
Cosa hanno da dire i cristiani, inoltre, in un contesto sociale che non ascolta nemmeno più la voce dei cristiani? Che senso ha annunciare il Vangelo di fronte a un deserto vuoto e, tra l’altro, pieno di insidie?
Venticinque anni fa sette monaci trappisti andarono incontro al martirio a Tibhirine, nell’Atlante algerino. Il monastero era stato fondato negli anni Trenta del Novecento. Per tanti anni i monaci erano vissuti lì, senza la possibilità di annunciare apertamente il Vangelo, per le restrizioni loro imposte dal contesto sociale in cui vivevano. Pensarono allora che in quelle condizioni, apparentemente senza vie d’uscita, poteva essere una buona idea coltivare un giardino nei terreni del monastero. Del resto, Tibhirine in lingua araba significa proprio giardino.
I monaci di Tibhirine pensavano che chiunque si sarebbe trovato a passare di lì, guardando quel loro giardino ben curato, avrebbe potuto farsi un’idea del paradiso che è stato promesso a tutti gli uomini. I monaci pensavano che chi si sarebbe trovato a passare di lì non avrebbe potuto sottrarsi a un richiamo che viene dal cuore, alla struggente nostalgia di quell’Eden che abbiamo perduto.
Cosa potrà pensare l’uomo contemporaneo, inoltre, riascoltando l’annuncio che Cristo è venuto a riaprire le porte di quel giardino che egli pensava di non poter più rivedere? Possiamo immaginare quale gioia possa suscitare in lui questo inatteso annuncio.
I cristiani vogliono salvaguardare il pianeta non soltanto per contenere i parametri ambientali entro limiti di sostenibilità, cosa evidentemente cui i cristiani per primi non intendono rinunciare. Essi vogliono di più, vogliono salvaguardare il pianeta per una speranza. Perché ogni uomo, guardando la bellezza della natura, possa riandare alla sua origine.
Quando Dio creò l’uomo, volle metterlo in un giardino. E prenderci cura responsabilmente e amorevolmente di questo giardino è un modo per dire che è in quel paradiso che noi uomini desideriamo tornare, nel dolce posto che Dio aveva preparato per noi.
Questa nostalgia è ciò che nella lingua portoghese chiamano saudade – il richiamo al Brasile e all’Amazzonia aiuta molto, come si sa, alla comprensione delle tematiche ambientali – un sentimento che evoca l’umana innocenza dell’origine. Questa innocenza originaria è il fondamento di quella umana fratellanza di cui parla spesso papa Francesco. Non ci sono divisioni tra buoni o cattivi, tra amici o nemici. L’uomo, ogni uomo, nonostante la vulnerabilità della sua natura, è stato creato nella sua innocenza originaria. Tutti gli uomini sono pertanto simili nelle loro esigenze elementari – esigenze di felicità, di verità, di giustizia, di bene – e queste comuni esigenze richiamano potentemente all’unità dell’intero genere umano.
Anche le sorti del pianeta, il benessere ambientale, tutto è strettamente connesso con questa unità che lega gli uomini tra loro. È il legame con la comunità che dà senso a tutte le cose. Tanto che se non ci fosse o se si allentasse – come vediamo purtroppo nella società attuale – inevitabilmente si perderebbe anche interesse per la cura del creato.
Lo spiegava efficacemente Archita di Taranto, filosofo dell’antichità, in un frammento riportato da Cicerone nel suo Lelius de amicitia (XXIV, 88-90): «Dunque è vero, se non sbaglio, ciò che ho sentito che i nostri vecchi ricordavano, avendolo sentito da altri vecchi, vale a dire ciò che era solito essere ripetuto da Archita di Taranto: “Se qualcuno fosse asceso al cielo e avesse osservato la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quella contemplazione non sarebbe stata così piacevole se egli non avesse avuto qualcuno cui raccontarla”. Così la natura non ama nulla di solitario e sempre si appoggia, per così dire, a qualche sostegno».
La comunità è condizione necessaria per salvaguardare ogni cosa: ambiente, lavoro, futuro. E creare queste condizioni forse è uno dei compiti che attendono oggi i cattolici italiani. Altro compito è quello di un giudizio che scaturisca da una scrupolosa azione di discernimento. Ciò richiama alla necessità di cogliere le sfide che i problemi dell’ambiente e dello sviluppo pongono.
Taranto ha significato, negli ultimi tempi, la crisi delle acciaierie di cui conosciamo bene l’enormità della portata. Ma, mentre a Taranto si celebra la Settimana sociale, un’altra sfida – si potrebbe dire epocale – si pone alla società italiana, quella che riguarda la localizzazione del Deposito nazionale per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, una delle maggiori emergenze ambientali che devono essere affrontate nel breve periodo.
Proprio nel corso della Settimana sociale, si tiene il Seminario Nazionale nel quale la Sogin, società incaricata dal Governo, inviterà i territori a presentare eventuali candidature a ospitare l’importante infrastruttura. Nel giorno successivo alla conclusione della Settimana sociale, tra l’altro, toccherà alla Puglia e alla Basilicata sedersi al tavolo della Sogin e manifestare il proprio orientamento al riguardo.
La Basilicata è la regione italiana con il maggior numero di siti ritenuti idonei a ospitare il Deposito. Anche la Puglia è fortemente segnata dal problema dei rifiuti radioattivi per la triste vicenda dell’ex Cemerad che ha portato a collocare proprio in provincia di Taranto, a Statte, un deposito temporaneo di scorie radioattive di varia provenienza, compreso parte del materiale contaminato da evento Cernobyl, purtroppo in condizioni di estrema precarietà dal punto di vista della sicurezza ambientale.
Il mondo della politica sembra nell’impossibilità di trovare una soluzione, indubbiamente impopolare, a un problema che diventa sempre più grave e minaccioso per l’ambiente e per la salute. Riusciranno i cattolici a esprimere un giudizio su questo importante argomento?
Dopo i fatti di Scanzano del 2003, durante i quali la Chiesa ebbe un ruolo rilevante e autorevole, riconosciuto da tutti, riguardo al trattamento delle scorie radioattive, la Sogin accettò un confronto leale con la dottrina sociale della Chiesa, promuovendo tra le altre cose un convegno a Trieste, nel luglio 2010, alla presenza del locale arcivescovo mons. Giampaolo Crepaldi, già firmatario, come Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa.
In questo tipo di questioni l’azione della Chiesa si é caratterizzata sempre per un approccio non ideologico, affermando la necessità di ricercare, in ogni cosa, il vero bene per l’uomo.
Quanta ricchezza e fecondità sono racchiuse nella Dottrina sociale della Chiesa, uno scrigno che attende soltanto l’audacia di gesti che possano comunicarla al mondo.
Pubblicato su Logos