Pubblichiamo di seguito l’editoriale di Mauro Magatti, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblicato su Avvenire del 15 gennaio 2023.
Dopo la fine dell’Unione Sovietica, le democrazie liberali che già aveva sconfitto i fascismi hanno nutrito la convinzione di poter diventare il modello di riferimento per il mondo intero. A trent’anni di distanza lo scenario è molto diverso: le democrazie – che pure hanno saputo superare crisi difficili – sono di nuovo sotto attacco.
Dall’interno, il pericolo viene dal malcontento che serpeggia tra i gruppi sociali che temono tanto la perdita del benessere acquisito quanto gli effetti stranianti dei profondi cambiamenti culturali di questi anni. L’assalto di Capitol Hill del 2021, negli Usa, e la replica di Brasilia in questi ultimi giorni ne sono i sintomi più evidenti. Dall’esterno, la minaccia viene dalle autocrazie, sempre meno disposte ad accettare lo status quo. L’aggressione putiniana dell’Ucraina, più che da pericoli reali per la sicurezza nazionale russa, è stata dettata dall’ostilità nei confronti della liberaldemocrazia e dalla disponibilità all’uso della forza militare per contrastarlo.
Per quanto in giro per il mondo circoli la domanda di libertà – pensiamo solo alle coraggiose proteste delle donne iraniane –, dal 2006 al 2020 i Paesi democratici sono scesi da 89 a 82, mentre quelli non democratici sono passati da 45 a 54 (con una sessantina di Paesi nel mezzo). Il radicamento della democrazia e del libero mercato in Paesi non occidentali rimane affare assai complicato. In questa situazione sorge la domanda: come difendere la democrazia? E quale ruolo essa avrà nei futuri scenari globali?
Paragonando quanto sta accadendo con il secolo scorso – quando l’Europa dovette fare i conti con la minaccia nazista – alcuni osservatori sottolineano che una certa arrendevolezza finì col favorire il rafforzamento di Hitler e le sue mire imperialistiche. Le democrazie devono avere la forza morale di difendersi anche militarmente da chi le minaccia. Questa osservazione è, per alcuni aspetti, condivisibile. Ed è la ragione per la quale è stato ed è opportuno schierarsi a fianco dell’Ucraina nella sua resistenza all’aggressore russo. Ma occorre stare attenti a non farsi prendere la mano, e finire esattamente là dove i nemici interni ed esterni della democrazia vogliono arrivare: legittimare una cornice di scontro secondo l’antica e funesta logica amico-nemico.
Rispetto a un secolo fa il mondo è molto diverso. In primo luogo, il livello di integrazione è maggiore. Molti dei temi da affrontare sono planetari: dal riscaldamento globale alle materie prime, dalle migrazioni agli squilibri demografici ed economici. È sempre più difficile disgiungere interesse nazionale da interesse planetario. E tutto ciò ha conseguenze rilevanti: le ragioni della convivenza pacifica oggi sono più forti per tutti gli interessi in gioco. E su queste ragioni bisogna fare leva. In secondo luogo, le democrazie liberali oggi non si confrontano più con ideologie interne (comunismo, nazismo) ma con culture millenarie (cinese, indiana, islamica, russa) lontane e anche lontanissime dai princìpi della liberaldemocrazia. Se si vuole essere realisti (come polemicamente si chiede) bisognerà riconoscere che nemmeno una guerra vinta potrebbe risolvere i contrasti che segnano il mondo contemporaneo.
La verità è che per affrontare il XXI secolo serve un pensiero politico nuovo. Semplicemente perché le categorie del passato sono ormai inadeguate. Se non, in qualche caso, dannose.
Che fare allora? In primo luogo, non si deve dimenticare che non siamo tutti in guerra. Non ancora. E pertanto il nostro primo obiettivo deve essere quello di evitare questo sbocco. Per noi e per il mondo intero. Ciò vuol dire che il sostegno all’Ucraina deve badare a evitare l’estensione e l’avvitamento del conflitto. Il che concretamente significa che l’obiettivo di ristabilire una situazione accettabile per gli stessi ucraini non deve farsi prendere da (comprensibilissimi, ma pericolosi) sentimenti di vendetta. La “vittoria” della resistenza non è l’umiliazione dell’avversario, ma il ristabilimento della giustizia. In secondo luogo, le democrazie devono recuperare capacità di iniziativa. Nel foro interno, facendosi più coraggiosamente carico dei problemi ereditati dalla globalizzazione neoliberista, che ha creato troppi perdenti. Politiche economiche nuove, in discontinuità rispetto agli ultimi trent’anni, hanno bisogno di regole e assetti istituzionali adeguati, che tardano però ad arrivare. Lavorando su queste riforme necessarie – come la regolazione dei mercati finanziari o della transizione ecologica – si possono gettare le basi per un ordine mondiale più equo. Nel foro esterno, serve un’iniziativa per una grande Conferenza internazionale che disinneschi le ragioni esplicite e implicite della guerra. E faccia questo definendo le regole della globalizzazione prossima ventura, necessariamente caratterizzata dalla convivenza di una pluralità di culture, sistemi politici, interessi economici. Un’iniziativa da prendere velocemente, fintanto che l’Occidente ha ancora l’autorevolezza per guidarla. Nessuno sa se questa iniziativa potrà avere successo. Ma è doveroso provarci.
Da tutto ciò deriva una conclusione importante: le democrazie non possono affrontare la doppia sfida interna-esterna senza un soprassalto spirituale. Nel senso più pieno e alto del termine. Non si può guardare al mondo di oggi come se si stesse giocando una partita di Risiko. Dare riposta alle domande di giustizia sociale e di senso che salgono da tante parti, riconoscere le diversità culturali del mondo di oggi e di domani senza cedere sui princìpi fondamentali della giustizia, della dignità della persona, della pace sono passi difficili, e possibili solo grazie a una nuova intelligenza politica, che presuppone un livello spirituale più alto. Senza il quale il prezzo che dovremo pagare alle sfide che ci stanno interpellando sarà ancora più salato.