Al cuore della Democrazia

Settimane Sociali

PAPA LEONE XIII GIOACCHINO PECCI

Rerum Novarum. Un’enciclica figlia del tempo ma con molti elementi profetici

di Flavio Felice, Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche – Università del Molise

Il 15 maggio del 1891, nel decimo anno del pontificato di Papa Leone XIII, venne data la lettera enciclica Rerum novarum. Essa rappresentò il documento più rilevante del moderno pensiero sociale della Chiesa, la magna charta, una svolta nei rapporti fra pensiero sociale cattolico e modernità. Padre Reginaldo Iannarone O.P., nell’opera Le grandi encicliche sociali, ci ha messo in guardia da rischio di considerare la Rerum novarum una sorta di “opera prima”, qualcosa di estemporaneo che non ha alcun legame con la storia. In realtà, come scrive Daniel-Rops, il “destarsi della questione sociale” risale almeno al 1822, e le voci più autorevoli furono quelle del Lamennais, si pensi al suo articolo «Drapeau Blanc», dello Chateaubriand nel suo Memoiries d’Autre Tombe. Furono tali voci a mobilitare il mondo cattolico e ad avviarlo ad una prima fase di attivismo civile.

È questa l’epoca nella quale sorgono alcune opere pie. È il caso dell’abate Lowenbruck, il quale dà vita alla Società di San Giuseppe per la gioventù operaia e alla Società di San Nicola dalla quale nascerà a Parigi la prima scuola professionale. Come non ricordare l’opera svolta dal 1831 da Lamennais, Lacordaire, Montalembert, Charles De Coux e dall’abate Gerbet sulle colonne dell’«Avenir» nel denunciare: «gli alti baroni dell’industrialismo che fissano a loro arbitrio il prezzo dei salari». Sul versante della saggistica, ricordiamo l’opera del visconte Albano de Villeneuve—Bargemont che nel 1834 pubblicherà il Grand Traité d’economie politique chrétienne, denunciando la profonda miseria dei lavoratori nelle fabbriche. Ancora, l’opera del neoconvertito Filippo Buchez il quale criticherà con inedita vis polemica l’ordine sociale del suo tempo, denunciandone i vizi, le ingiustizie e gli scandali. Dal pulpito di Notre Dame, a partire 1835, Lacordaire pronuncerà le celebri «Conferenze». A lui si uniranno i discepoli di Bushez, mentre all’abate Gerbet si unirà una grande personalità laica: Frédéric Oznam, che nel maggio del 1833 fonderà le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli.

Se la prima generazione parla francese, man mano che in Francia si va lentamente spegnendo l’impeto sociale, anche a causa di alcune degenerazioni filo rivoluzionarie e di conati reazionari, il pensiero sociale cattolico assume rilevanza in altre terre. È il caso della Germania, dove un giovane prete, Wilhelm Emmanuel, barone von Ketteler, risveglia la coscienza cattolico-sociale della Germania. Insieme a lui, annoveriamo il canonico Leming, Adolf Kolping e il barone Burghard de Schorlemer Alst. In Inghilterra ricordiamo il card. Henry Manning; negli Stati Uniti il card. Gibbons; in Italia padre Luigi Taparelli D’Azeglio, padre Matteo Liberatore, il card. Zigliara e Giuseppe Toniolo. La schiera di autori interessati alle questioni sociali diventerà sempre più folta fino a quel fatidico 15 maggio 1891, giorno in cui Leone XIII darà al mondo la sua Rerum novarum.

In realtà, la Rerum novarum venne pubblicata a puntate su «L’Osservatore Romano» il 19, il 20 e il 21 maggio e solo il 23 maggio apparve la traduzione in italiano.

Papa Pecci pubblicò la Rerum novarum in un momento in cui la Chiesa cattolica attraversava una fase di profonda crisi: era in corso un processo di intensa scristianizzazione, al punto che l’educazione alla religione cattolica aveva toccato il livello più basso della sua storia. L’immagine che la Chiesa dava di sé al mondo intero era quella di una Chiesa in agonia, chiusa ed incapace di comprendere le ansie e le ragioni dell’uomo contemporaneo. Quando il 15 maggio del 1891 Leone XIII promulgò l’enciclica, destò in breve tempo l’attenzione di tantissimi uomini politici ed intellettuali di tutto il mondo, favorendo la nascita e lo sviluppo di movimenti aperti alla dimensione sociale e politica sia all’interno sia all’esterno delle istituzioni. Diede nuovo slancio all’impegno dei cattolici nel campo del volontariato e contribuì alla fondazione di associazioni di lavoratori, cooperative, banche rurali, fino a giungere alla fondazione di partiti politici ispirati al “popolarismo”, che potessero rispondere alle sfide del liberalismo e del socialismo.

Con riferimento al socialismo, Leone XIII usa tale termine in un’accezione ampia, tale da poter essere compresa dai cattolici dell’Europa e dal resto del mondo, anche perché bisogna ricordare che le economie miste ed il welfare state non erano ancora neppure pensabili, e che la propaganda sindacale dei partiti socialisti oscillava tra un socialismo gradualista che sfocerà nella socialdemocrazia e nel fabianesimo e al libera-socialismo britannico, ed un comunismo radicale che condurrà al totalitarismo sovietico. Ma se il Papa condannò il socialismo definendolo contrario alla giustizia, alla natura, alla libertà e al buon senso, nello stesso tempo fu indiscutibilmente critico rispetto alle idee, agli atteggiamenti e alle ingiustizie di cui erano protagonisti i paesi che avevano intrapreso la via del liberalismo economico. Sebbene la critica sia stata severa e rigorosa, l’atteggiamento del Papa di fronte al liberalismo fu sostanzialmente diverso, infatti, Leone XIII non criticò il socialismo raccomandandone la riforma: semplicemente lo condannò. Ecco, a tal proposito, come Leone XIII conclude il primo capitolo della Rerum novarum, intitolato inequivocabilmente «Il socialismo, falso rimedio»: «Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio».

Le ragioni per le quali la proposta socialista andava del tutto rigettata riguardavano il principio di proprietà privata e d’iniziativa personale. Riferendosi alla proprietà privata il Papa affermava un criterio che incrocia tanto l’argomento tomista quanto quello lockiano: «Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli». Riguardo al diritto d’iniziativa personale, esso è intimamente collegato al diritto di possedere la proprietà privata: «Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti?», ed ancora: «Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria».

Leone XIII chiedeva un profondo rinnovamento dell’economia, condannava senza alcuna possibilità di appello il socialismo e rivendicava, con argomenti propri della tradizione cristiana, alcuni tratti positivi del libero mercato, come ad esempio la proprietà privata e l’iniziativa personale. Tuttavia, il Papa era convinto che le società basate sul sistema liberal-capitalista fossero fondate su due errori, entrambi rintracciabili in una errata comprensione antropologica. In primo luogo, l’antropologia sottesa al capitalismo primitivo finiva per ridurre gli uomini a tanti singoli isolati l’uno dall’altro ed uniti solo da legami sociali artificiali e per ragioni esclusivamente utilitaristiche. Al contrario, nella tradizione aristotelico-tomista l’uomo è naturalmente incline alla socializzazione, non alla solitudine, e lo Stato diviene l’espressione politica di queste inclinazioni, non il rifugio dell’uomo spaventato e sospettoso di un altro uomo. Inoltre, la proclamazione di un’eguaglianza meramente formale faceva dei sistemi politici delle entità insensibili al grado di sofferenza che proveniva da chi nella sostanza tanto uguale non era.

La preoccupazione di Leone XIII era che il diffondersi dello sfruttamento della classe dei lavoratori da un lato e del pragmatismo e dell’utilitarismo, ritenuti necessari per il buon funzionamento di un sistema di libero mercato, dall’altro, avrebbero portato all’affermazione di schemi di pensiero meramente funzionalistici e alla propagazione di sentimenti antireligiosi ed eticamente indifferenti.

Centotrenta anni sono tanti e la società è mutata radicalmente. Leone XIII si rivolgeva ad un mondo il cui contesto era ancora fortemente caratterizzato dalle rivoluzioni liberali e borghesi del XVIII secolo, sia sul fronte politico: la Rivoluzione americana e quella francese, sia sul fronte economico: la prima e la seconda Rivoluzione industriale. La sua azione pastorale ha avuto il grande merito di far riemergere presso i fedeli la prudente cura per il bene comune, come nel 1987 Giovanni Paolo II avrebbe definito l’impegno civile. Papa Francesco parla ai nostri giorni, alle contraddizioni dei sistemi economici che possono uccidere, ad una società frammentata e sempre a rischio di implosione, a causa dei rigurgiti nazionalistici, populistici, xenofobi e terroristici, acuiti anche da una serie di gravi crisi economiche che hanno caratterizzato l’avvento del XXI secolo. Entrambi hanno parlato all’uomo, alla sua dimensione più profonda e insondabile; hanno entrambi riproposto la magna quaestio: la domanda su se stessi, sul senso del proprio nascere, vivere e morire.